13 anni di editoria e cambiamenti: parte quarta

Photo by Josh Hild

Eccoci con la quarta parte di questa serie di considerazioni sull’editoria indipendente e non. Oggi, in data astrale 14 marzo 2025, posso affermare con totale, completa e assoluta certezza, che la gente se potesse bruciare vivi o scorticare (sempre vivi) gli autori indipendenti senza subirne conseguenze penali, lo farebbe. Aver letto qualche autore indipendente che si presentava già in partenza non bene, superficiale e non competente, significa non aver saputo selezionare il libro da leggere. Da qui a generalizzare, è un attimo.

Si accusano gli autori indipendenti tutti di essere invischiati con l’editoria a pagamento e, in un paese non anglofono dove chiunque parli deve infilare dieci parole di inglese ad capocchiam nelle frasi, si confondono i termini “self-publishing” e “vanity press”.

Piccolo inciso. Avete mai sentito parlare del famoso “smart working”? Dove per “smart working” la gente, in realtà, intende il “remote working”, perché l’uso del termine prevede un lavoro non in presenza, ma da “remoto”. Il “remote working” è il “lavoro da remoto/luogo diverso dall’ufficio”, mentre lo “smart working” è il “lavoro intelligente”, perché, è ben noto, c’è anche chi lavora in modo non intelligente. Sto chiaramente facendo ironia, per quanto molti lavorino ad capocchiam in modo per nulla intelligente.

Tornando all’editoria, molti non sanno che in inglese editoria a pagamento non è “self-publishing”, ma “vanity press”. Sono due cose distinte e separate. Nel primo caso, si parla di “auto editoria”, un po’ come le “auto produzioni” musicali e cinematografiche. In un buon primo caso, l’autore ci mette la faccia, investe in una buona copertina, presenta un testo privo di errori di grammatica, sensato, editato, un e-book ePub fatto secondo le regole dell’HTML/XHTML e CSS, che nemmeno i grandi editori conoscono, e non mi stancherò mai di dirlo. Ulteriore motivo per cui, secondo me, applicano il DRM agli e-book. Per nascondere la spazzatura e le magagne varie nel codice HTML/XHTML/OPF dei loro e-book.

Il “vanity press”, invece, è la famosa “editoria a pagamento”, ovvero si cerca un ente editore che in cambio di un pagamento stampa un testo, a volte senza nemmeno associare allo stesso un codice ISBN. L’ho visto fare, ecco perché ne menziono il caso. L’editore a pagamento è un tipografo con, a volte, un codice ISBN.

Inoltre, conosco almeno tre editori “tradizionali” che si sono pubblicati da soli usando il loro marchio editoriale, uno dei tre, inizialmente pubblicava solo i propri testi, però non mi sembra che qualcuno abbia polemizzato, in quel caso. Quindi, consiglio spassionato a chi tratta le parole: facciamo attenzione a usare i termini giusti, perché il diavolo sta nei dettagli. E se uno “scrittore”, un “giornalista”, confonde le parole, non ne conosce il significato, o non le sa proprio usare forse dovrebbe cambiare mestiere.

Detto questo, si possono trovare incompetenti ovunque, se è per questo a Napoli, città della pizza, ci sono locali dove NON sanno fare la pizza, o dove servono un pessimo caffè, o un pessimo babà. E accanto a questi locali ci sono altrettanti locali che fanno ottima pizza, caffè e babà. Quindi, alla fine, esiste chi è bravo nel proprio mestiere di editore e chi è pessimo.

E, in ogni caso, non tutti si possono permettere di essere “auto editori”, perché bisogna capire di editing, di grafica per realizzare la copertina, oppure si deve pagare la persona giusta che sappia realizzare una buona copertina, bisogna saper impaginare un testo scritto per realizzare una edizione cartacea, stessa cosa per gli e-book in ePub, bisogna conoscere il codice HTML/XHTML, i fogli di stile CSS. C’è chi non conosce queste cose, non sa impaginare, e converte un formato DOC/DOCX/PDF in ePub convinto di aver fatto l’e-book, e infatti ne viene fuori una bella insalata immangiabile.

Se uno non ha competenze, non ha soldi, non sa da chi fare fare editing, copertina, impaginazione, non può proprio mettersi a pubblicare in autonomia. Per non parlare del marketing, della pubblicità del proprio testo. È un lavoro vero e proprio, e pure un tantino impegnativo.

A volte parlare male del self-publishing è anche un modo per portare acqua al proprio mulino, soprattutto se si è editor. Ci sono editor che lo fanno e poi però sono i primi a pubblicarsi da soli se le conoscenze con le case editrici fanno cilecca. Poi, se si va da un editore e si chiede cosa ne pensa degli autori indipendenti o degli auto editori potrebbe non sapere nemmeno di cosa si parla, oppure si farà una bella risata. Il grande editore considera solo la propria editoria. Punto. E mi pare anche normale. Se hai tanti soldi non è che gli possa importare di chi si pubblica da solo.

Sono due scuole di pensiero diverse.

(continua lunedì 17 marzo…)


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2 pensieri su “13 anni di editoria e cambiamenti: parte quarta

  1. Avatar di @bluebabbler @bluebabbler

    Invece di criticare gli autori auto-pubblicati (per poi magari cambiare idea appena il vento varia direzione), sarebbe più costruttivo concentrarsi su come migliorare la qualità complessiva e la vitalità del mercato editoriale, indipendentemente dal canale scelto.

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