L’isola – racconto

(CC0) Ingo Joseph on Pexels.

Eccomi qui, con un esperimento un po’ particolare. Un racconto di circa 3 cartelle. Volutamente breve. Una dedica più che un racconto. Ho amato quest’Isola come se vi fossi dentro, come se anche io stessi lì tra misteri, amori ed emozioni. Preso e trascinato.

Il racconto che ne è venuto fuori non aggiunge nulla di nuovo, probabilmente. È appena un piccolo istantaneo flash a quell’opera che ci ha accompagnato per sei anni e che è stata un capolavoro. Peccato che sia stata sfruttata troppo anche dagli stessi autori. Si sono fatti sfuggire di mano la storia. Non so se si possa scriverne. In fondo l’idea e i personaggi appartengono ai loro creatori, ma una dedica quale mega fan credo me la possano concedere, no? Ecco a voi il racconto.

“L’isola” di Giovanni Venturi

Blu era il cielo e blu era quel fantastico oceano. Lì davanti a me. Sotto di me. A 360°. In ogni direzione. L’acqua si univa al cielo e il cielo si fondeva con l’acqua. Un colore così intenso e vivido, eppure non ci avevo pensato più di tanto. Per tutto il tempo ero stato impegnato in attività che, a volte, non mi lasciavano nemmeno il tempo di riprendere fiato. Ora lei era lì davanti a me. La mia dolce Kate. Avrebbe dovuto essere il nostro viaggio di ritorno. Il momento tanto sospirato in cui finiva tutto, in cui si ritornava alla normalità. A casa.

«L’isola, guardate!» disse Hugo.

«È vero, è lì» aggiunse lei. «Ce l’abbiamo fatta, Jack.»

L’isola. Un atollo di terra che era stata la nostra casa per mesi. Ci eravamo conosciuti lì per la prima volta, sull’isola. Eppure ricordo quando l’avevo intravista durante il viaggio. Ero diretto al gabinetto e, attraversando il corridoio centrale, l’avevo vista, Kate, seduta al suo posto. Nascondeva la sua storia, la sua tristezza, dietro un sorriso così pieno e rilassato. Avevamo incrociato i nostri sguardi per un instante insignificante di tempo, roba che non ti permetteva assolutamente di ricordare chi fissavi e perché. Eppure quella piccola manciata di secondi, quegli istanti così rapidi e successivi erano stati sufficienti. Mi aveva sorriso, così le avevo ricambiato lo sguardo, poi subito dopo si era spenta nel suo sedile mentre un uomo dai capelli rossi le diceva qualcosa all’orecchio.

«Ragazzi il carburante è quasi finito. Per fortuna che ci siamo!» disse Frank, il nostro pilota, riportandomi alla realtà.

Se pensavo agli eventi pazzeschi che ci erano capitati, ora, essere lì sull’elicottero di rientro verso la nostra isola, era nulla. Fissavo Sun e la vedevo ancora sconvolta. Lo sguardo completamente assente.

«Sun ci siamo. È finita. L’isola.»

La donna coreana non mi rispose. Aveva ancora qualche lacrima che le cadeva lungo le guance. Avevo notato anche lei prima dell’isola, ma all’aeroporto. Era con suo marito Jin in fila. Mi ero accorto di loro perché lui parlava una strana lingua. Non erano americani come me. Sun mi aveva fissato mentre Jin cercava i documenti nel borsello. Immaginai volesse capire perché ero lì a guardarli, quasi con insistenza. Mi aveva trasmesso una strana sensazione, come se volesse parlarmi. Il destino era buffo. Osservavi le persone intorno a te e mai andavi a pensare che avresti affrontato assieme una portentosa avventura. Che saresti diventato parte di loro.

Nelle sue pupille c’era ancora tanto dolore, c’era il riflesso della nave che esplodeva mentre noi ci allontanavamo, salvandoci, mentre il suo Jin era lì inerme. Al suo posto sarei potuto impazzire completamente, all’istante. L’avevamo dovuta trattenere. Urlava ossessa. Piangeva. Gridava. L’elicottero rischiava di precipitare. Voleva lanciarsi, poi si era seduta e in silenzio aveva continuato a piangere. Dio, non sapevo se al suo posto sarei riuscito ad andare avanti. A volte eri così impotente davanti agli eventi. Ero venuto alla ricerca di mio padre in Australia. L’avevo trovato, ma non come credevo io. Non comandavi il fato. La vita, la morte. Non potevi.

John diceva che l’isola era il nostro destino, che c’era una ben precisa ragione se ci trovavamo lì. Era l’isola che ci aveva chiamati. Tutte stronzate! Il destino non esisteva. Ognuno creava il proprio. Dov’era scritto che mio padre doveva morire? E Jin? Per quale ragione doveva perdere la vita su quella nave?

L’oceano sotto di noi era calmo. Il cielo pulito. E io pensavo. Ricordavo tutti quegli eventi, ma in una frazione di secondo successe. Era cambiato di nuovo tutto.

«L’isola è sparita! Coso, l’isola è sparita!» mi riferì Hugo allarmato.

Non poteva essere, m’ero detto. Il riflesso dell’oceano sotto di noi doveva averci abbagliati. Confusi. Le isole non sparivano. Un atollo di terra, per quanto piccolo si voglia non poteva di punto in bianco sparire. Doveva esserci una spiegazione a tutto ciò. Molto probabilmente avevamo confuso un riflesso con la nostra amata isola. La nostra detestata isola.

«Hugo non c’era nessuna isola!» dissi quasi convinto.

«Coso ti dico che un momento era lì e il momento successivo non c’era più. L’hai vista pure tu, no?»

Avevo visto anche io questa cosa, sì. Si erano formate delle piccole onde al posto dell’isola. Come quando a mare buttavi un sassolino e mentre questo arrivava sul fondo lì in superficie si formavano le onde.

«Hugo, le isole non spariscono!»

«Jack è sparita, davvero» aggiunse Kate.

«Non posso crederci, John c’è riuscito!» continuò Hugo felice.

«Hugo non dire assurdità! John non può aver spostato l’isola.»

«Va bene Jack, allora dammi tu una spiegazione plausibile perché l’isola era lì e ora non c’è più.»

Sotto di noi c’era soltanto l’oceano blu. Una quantità sterminata di blu. Sopra e sotto, di lato. Blu in tutte le direzioni. Ero convinto che ci potessimo godere un attimo di tregua, ma non accadeva mai. Quanto più ci speravi più inducevi il verificarsi di eventi negativi.

«Ragazzi vi annuncio che il carburante è completamente finito» disse Frank.

Era di nuovo la fine. “La fine”. The End. Game Over. Sarebbero apparsi i titoli di coda e non ci saremmo più salvati. Avevamo scampato troppe volte la morte e ora saremmo tutti morti. Ero così devastato, così stanco che forse non mi importava neanche più, ma vi assicuro che avevo il terrore che mi trasudava ovunque. Ero stato il leader dal primo giorno. Mi avevano nominato senza che io avessi fatto nulla e questa cosa mi pesava. Un leader non poteva arrendersi mai. Avrei desiderato non esserlo, fare solo parte del branco e ubbidire.

Sperai che l’elicottero si salvasse in qualche modo. Che tutto si risolvesse.

Ci lanciammo coi giubbotti di salvataggio prima che avvenisse lo schianto e cademmo in acqua.

Per la prima volta non mi importava cosa sarebbe accaduto.

30 agosto 2010

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9 pensieri su “L’isola – racconto

  1. Stefy

    Ecco un blu particolare e sai, caro Giovanni, a cosa mi riferisco… dove “L’acqua si univa al cielo e il cielo si fondeva con l’acqua (bellissima immagine, in tutta la sua semplicità).” Molto, molto bello anche il racconto. Un abbraccio. E grazie. Stefy

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  2. una qualità speciale dello scrivere, é che scrivi con il cuore e fai percepire gli stati d’animo che descrivi, con la stessa ansia, con lo stesso finale abbandono. Prendilo per un commento non viziato dal serial che non ho mai visto, per cui il mio giudizio è dato semplicemente al tuo racconto, senza retropensiero o retro-gusto.

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