E se si scrivesse per i personaggi?

Foto di David Mark da Pixabay

La classica domanda che ci si pone nel tempo, o che ci viene posta quando scriviamo, è: “Perché scrivi?”.

L’altrettanto tipica risposta è: “Perché mi piace”.

Scrivere non è mettere insieme una sequenza casuale di parole alimentando pagine e pagine dove magari in un paragrafo di 15 parole si usa 5 volte lo stesso verbo o aggettivo.

Scrivere per poi pubblicare è una attività molto impegnativa, richiede una grandissima quantità di tempo, voglia e concentrazione, continue riletture, riscritture, costruzione di una trama solida e di dialoghi chiari, sensati ed essenziali, presume interventi strutturali, tagli, sofferenza, ecc… Sempre che si sia letto tantissimo, e buoni libri.

Alla base è chiaro che ci deve essere il piacere di farlo. Ma il piacere non riesce a essere sufficiente quasi mai. È solo il punto di partenza. Infatti, se non c’è piacere a scrivere, la vedo difficile riuscire a concludere una storia. Ma nemmeno portare a termine una storia è sufficiente per dire che si è scritto, nel senso che poi si può anche pubblicare il risultato così com’è. Bisogna stimare e sistemare il lavoro finale più e più volte, magari 10 o 20 riletture/rielaborazioni complete, nella migliore delle ipotesi, passare anche due o tre anni sullo stesso testo.

Qualcuno dice che bisogna scrivere per un pubblico, che quando si creano storie lo si fa per dei lettori specifici e, in certi ambiti ben precisi, è vero. Alcuni noti autori come Crichton (e non solo lui) hanno in mente il cinema, scrivono sceneggiature e poi ne vendono anche il “romanzo”. Il secondo volume di “Jurassic Park” era una evidente sceneggiatura. Il 95% del testo è composto solo di dialoghi e il 5% di qualche descrizione tecnica di ciò che fanno i personaggi, ma niente approfondimenti psicologici e tante scene tipiche di inseguimenti e azioni spericolate e quasi magiche.

Però, oggi, mi interessa l’autore sconosciuto che nonostante non venda nulla continua a scrivere e a pubblicare impegnandosi al massimo e portando avanti un prodotto di qualità nel contenuto e nella forma. Perché insiste a scrivere? Cosa lo motiva?

Personalmente trovo difficile scrivere pensando a una persona specifica. Si dice che in genere la persona per cui un autore scrive sia egli stesso. Sono le storie che ci piacerebbe leggere quelle che finiamo per scrivere.

E poi, certo, si scrive anche per soldi. Con certi generi, adottando la giusta strategia, si possono davvero fare tanti tanti soldi. Una marea di soldi. Ma, con il sempre crescente numero di autori, diventa davvero difficile vendere di continuo, anche per chi scrive libri pieni zeppi di scene di sesso, dove addirittura si arriva a descrivere la degustazione del seme maschile. Sì, perché sono quelli i libri che vendono tanto, che sono nelle classifiche, molto spesso.

Altre volte si scrive per reagire ai tempi duri in cui si vive, nel senso che si rappresentano le ingiustizie che si vedono attraverso una storia, per lasciare una testimonianza a chi tenderà a sminuire le difficoltà di un’epoca o a dimenticarne proprio. Ovviamente, in questo caso, non si deve inserire nessun messaggio morale, si deve lasciar parlare la storia, anche se a volte bisogna proiettarsi in epoche diverse, futuristiche, magari in un genere come la fantascienza distopica, per esempio. Penso a “1984” di George Orwell.

Tornando alla domanda dell’articolo, e se invece non si pensasse a se stessi, al pubblico, ma alla storia? E, nello specifico, ai personaggi? Per esempio, dopo una serie di libri autoconclusivi incentrati su certi personaggi, magari si sente il bisogno di incontrarli di nuovo e continuare a parlare di loro finché non si giunge a una fine definitiva solo con un certo volume, per sviluppare le loro vite nel tempo e con idee sempre nuove.

Se sono bei personaggi, se sono interessanti, se emozionano, se soffrono e affrontano la vita di petto tra mille difficoltà, perché no? Può essere stimolante, una gran bella sfida. Certo, è pura follia se nessuno poi legge. Portare avanti una serie, e farlo bene, è più complicato di scrivere un solo romanzo e basta, però la tentazione di continuare finché ci sono idee è forte, e le idee arrivano di continuo.

Magari è proprio vero che si scrive per i personaggi. Non in quei casi, però, dove le storie non focalizzano e non sviluppano gli stessi, non li caratterizzano, non permettendo di ricordarne quando si chiude la storia, con l’ultima pagina.

Scrivere per la volontà dei personaggi. È una cosa interessante. È un nuovo punto di vista. Non ho mai letto che qualcuno scrivesse per incontrare i propri personaggi, i quali magari vivono in una certa città che all’autore piace e si finisce per passeggiare insieme a loro.

Tutto può essere, no?

Round Pond Londra – Marzo 2022 – (C) Giovanni Venturi

Io l’ho fatto. Con la serie di 7 volumi “Le parole confondono”, il cui settimo è ancora inedito e da cui io e il lettore faremo fatica a staccarci. Ho creato un vero e proprio mondo. È stato davvero stimolante. Passeggio per strada e intravedo i personaggi sulla collina di Primrose Hill a Londra al tramonto oppure mentre sono in strada diretti allo Brockwell Park a Brixton. Brixton, capolinea meridionale della Victoria Line, dove potrebbe esserci un segreto nascosto che stravolgerà le vite dei protagonisti. Oppure stesi sul prato accanto al Round Pond.

I personaggi sono la mia magia, quella che mi fa continuare a scrivere e a scrivere e a scrivere. Senza, mi sentirei quasi perso.

2 pensieri su “E se si scrivesse per i personaggi?

  1. Un’ottima analisi che condivido in pieno.
    Credo peraltro che ci sia una sorta di predisposizione al “creare storie”. Ricordo che una volta lessi un’intervista a uno sceneggiatore professionista che lavorava nel mondo del cinema e delle serie televisive. Il giornalista gli domandò quanto guadagnasse uno sceneggiatore, visto che sappiamo quasi tutto dei cachet milionari delle star di Hollywood ma ben poco di coloro che lavorano “dietro le quinte”. Lui rispose che ovviamente i guadagni di uno sceneggiatore non sono paragonabili a quelli di un attore, poi aggiunse una cosa tipo: ‘ma tanto i produttori lo sanno che uno che si diverte a inventare storie non può fare nessun altro lavoro, quindi finiamo con l’accettare il compenso che ci propongono senza negoziare’.
    Era una battuta, certo. Però posso dire che è una battuta con un fondo di verità. Io, almeno, ho una ineluttabile (ma appagante) necessità di trascorrere almeno un paio di ore al giorno elaborando storie, in forma scritta o fumettistica che sia. I primi anni che lavoravo avevo smesso di creare perché pensavo “Vabbé, basta con i sogni, non sarò mai un autore professionale, ora ho un lavoro, mi concentro su questo”. Beh, dopo due anni di “astinenza” ho dovuto ricominciare a farlo perché stavo male, mentalmente e emotivamente. Inventare storie è l’unica cosa che mi piace realmente fare sin da quando ero bambino. Se non sono stato abbastanza bravo da crearmici una professione pazienza, ma almeno come “hobby” lo devo avere, è una questione di qualità della (mia) vita.

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    1. Sì, è vero, si scrive soprattutto per necessità e se poi smetti devi riprendere. Quando sono per strada e cammino o quando sono nei luoghi delle mie storie mi pare quasi di visualizzare i miei personaggi in una nuova scena, capire in che modo risolvere un dilemma della storia o un modo di affrontare un certo discorso che sarà uno dei tanti climax del romanzo. Soprattutto quando ambiento le storie a Londra, devo tornare dai personaggi, ricordare i miei angoli preferiti di una bella città. Posso svagare.

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