
Per non dimenticare.
Io c’ero. 41 anni fa.
Ecco a voi un racconto.
23 novembre 1980
«È difficile fare una valutazione precisa del numero delle vittime, di quanti edifici e quante costruzioni siano crollati con le persone dentro» ha dichiarato il premier di Haiti Jean Max Bellerive qualche tempo fa. «Credo che siamo al di sopra delle centomila vittime. Spero che non sia vero, spero che la gente abbia avuto il tempo di uscire in strada. Alcuni quartieri sono stati distrutti completamente, non si vede più una persona.»
Sulla versione elettronica del quotidiano “La Stampa” leggo frasi come: «La mia sorellina non smette di piangere, ha paura che torni la notte», «non credo a ciò che vedo, forse è solo un incubo», «sono senza forze ma le scosse non mi permettono di riposare». L’inferno del terremoto cileno raccontato su Twitter va avanti senza fine.
Resto imbambolato, fisso mio fratello Carlo e sua moglie, poi guardo mamma. Queste cose mi fanno sempre un certo effetto. Ti ritrovi senza casa e che fai? Dove te ne vai? La notte dove dormi? Haiti, Cile, L’Aquila. Nel mondo c’è sempre un terremoto che lascia la sua scia di polvere, pietre, edifici che si abbattano, che svengono come al mancare delle forze e la gente non sa come comportarsi, non sa che dire; il pensiero che prende il sopravvento è il luogo dove andare, cosa potrà riservare loro il futuro, sì perché dopo una cosa simile non sei capace di prevedere nulla.
«Ti ricordi quando avevi undici anni?» mi chiede mio fratello.
Lo fisso e sto per dirgli che stavamo parlando di tutt’altro. Sto cercando un’idea per l’articolo sul terremoto che mi hanno chiesto in redazione provando a evitare banalità e intrusioni nell’intimità delle persone, poi mi fermo, richiudo la bocca che avevo aperto per riprenderlo e capisco.
«Sì, sì, Carlo ora ricordo. Tu ne avevi solo sette… Ma te ne ricordi ancora?»
«Certo, Gianni, me ne ricordo. Sai che oggi ho chiamato Georgie? Tu hai detto che la situazione a L’Aquila è ancora incerta. C’è gente che non ha più il controllo della propria vita e a lei è restata impressa questa cosa. Abbiamo ricordato la nostra situazione dell’80. Mi ha detto che vuole andare lì.»
Così abbiamo soprannominato nostra sorella Giorgia verso i suoi dodici anni. Ha sempre adorato quel cartone animato. All’epoca era innamorata di Lowell J. Gray, di Arthur e di Abel, come tutte le bambine di quel tempo.
Mamma scoppia a piangere.
«Ma come maledizione è possibile?» aggiunge ancora tra i singhiozzi interrompendo i flash dei miei ricordi. «Ma come è possibile che in tivù non dicono nulla? Sono passati mesi. Dovevano risolvere. Il premier ha detto che ha fatto ricostruire le case.»
«Sì, le ha fatte fare lui le case, coi suoi soldi…» dice Carlo poggiando il pollo nel piatto.
«Perché, non è vero?» chiede mamma.
«Smettetela» intervengo prima che mio fratello e mamma dibattano ancora di politica.
«Qualcuno ha fatto qualcosa per noi?» chiede Carlo. «Qualcuno si è dato poi da fare per le persone di Balvano?»
Ho letto giusto qualche giorno fa che nel 1980 Balvano (PZ) fu uno dei centri più colpiti, sia per numero di vittime che per i gravissimi danni subiti al paesino. Tra le macerie della chiesa di S. Maria Assunta morirono settantasette persone, di cui sessantasei adolescenti. Il crollo di tutta la parte anteriore della chiesa e del portale di ingresso bloccò la corsa verso la vita delle povere anime che si affrettavano ad uscire per strada. Uno sciagurato restauro, come una serie di sciagurate responsabilità per L’Aquila. Erano tutti pronti alla ricostruzione. La campagna elettorale era stata aperta. Lo show era appena iniziato, ma ora non se ne parla più, eppure io so che ci sono molte cose che non vanno.
«Non discutete che i bambini dormono» dice la moglie di mio fratello.
«Domani andiamo a recuperare Georgie e andiamo a L’Aquila. Nostra sorella ha ragione se tu sai le cose dobbiamo dare una mano.»
«Ma non puoi fare nulla, Carlo.»
«Il premier ha ricostruito tutto» insiste mamma.
«Sì, sì, il premier è stato.»
Non l’ho scordato più il terremoto del 23 novembre del 1980. Ne abbiamo parlato per diverso tempo. Ricordo bene i fatti di quella domenica, almeno credevo, ne ho parlato anche con mamma e ho scoperto che in realtà tutto si è stranamente amplificato nella mia testa. Nella mia e in quella di Carlo è come se tutto fosse durato dieci volte in più rispetto a quello che in realtà è stato.
Restiamo tutti a dormire da mamma. Ci prepariamo per la notte e, prima di andare a letto, Carlo mi racconta la sua versione, quello che ne restava dei suoi ricordi. Precedentemente non l’ha mai fatto. Non ne abbiamo mai parlato.
***
Sollevai gli occhi dal foglio. Il tavolo tremava tutto quanto.
«Massimo, la smetti?» dissi sbuffando. «Il disegno…»
Ma non c’era più nessuno accanto a me, non c’era mio cugino Massimo, non c’era mio fratello Gianni e non c’era più nessuno. Una stanza affollata da sei famiglie all’improvviso era diventata vuota. Il tavolo si spostava da solo, la mia sedia faceva altrettanto.
Erano tutti lì sotto l’arco delle varie porte della casa.
«Dov’è Carlo?» disse qualcuno all’improvviso. Ero mingherlino e impegnato coi miei pastelli, così nessuno si era ricordato di me.
Una delle zie iniziò a gridare. Avevo difficoltà a capire chi era tra le sorelle di papà.
«Madonna mia! Ma non smette più. Dobbiamo scendere prima che cade tutto!»
Sopra di noi c’erano altri due piani. Sotto, invece ce n’erano quattro.
Mi sollevai dalla sedia, ma non riuscivo a stare in piedi fermo. Barcollavo.
«Dov’è Carlo?» la voce di mia madre.
«Gianni, dov’è Carlo?» chiese mio padre a mio fratello.
«Sono qua» dissi incerto.
Tremava ancora tutto. Non capivo che succedeva.
«Dobbiamo scendere subito. Ora!» prese la parola zio Mimmo.
«Le scale sono pericolose, potrebbero cadere» disse zia Maria.
Zia Enza e altri parenti erano sotto l’arco della porta di ingresso.
«Prendete i ragazzi. Muoviamoci» ordinò papà. «Ora!»
Mi tirò su rapido assieme a mia sorella e iniziò la corsa verso le scale. Io mi tenevo stretto stretto a lui con gli occhi chiusi senza fare domande.
«Gianni ci sei?» chiedevo.
Arrivammo sotto l’arco del portone del palazzo, poi finalmente fuori all’aperto. Il cielo non lo scorderò più: era rosso come il fuoco e avevo la sensazione di udire un rumore ripetitivo, come se ci fosse un dinosauro che batteva le zampe in terra e poi urlava.
C’era tutta la gente di San Giovanni a Teduccio tra le strade. Alcuni bambini piangevano, ma io no.
«Zio Antonio, ma è la fine del mondo?» chiesi preoccupato. «Allontaniamoci di più, sennò il palazzo può caderci addosso.»
«Carlo è il terremoto, non è la fine del mondo. Non cade nulla, tranquillo.»
Eppure io continuavo a sentire il dinosauro urlare e correre, così mi strinsi alla gamba di zio. Giorgia piangeva. Nel 1980 aveva solo quattro anni e l’unica cosa che la preoccupava era il suo pupazzetto bianco, Coccolino.
«Adesso brucia tutto?» mi chiese.
«No, no, piccola, non brucia niente» le rispose mamma.
Il cielo era ancora rosso e il dinosauro invisibile si aggirava senza sosta per le strade. Lasciai la gamba di zio e mantenevo la mano di Gianni mentre fissavo il palazzo da giù. Cercavo di individuare il piano dov’eravamo mentre ricordavo la corsa di papà per le scale con me e Giorgia in braccio.
Abbiamo chiuso la porta? mi chiesi serio.
I giorni dopo non siamo tornati a casa. Zio Mimmo e zia Maria ci volevano portare da loro perché abitavano in case nuove, invece quella di nonna, dove ci aveva fatto visita il terremoto, e la nostra erano vecchie, fatte di tufo e non si sapeva se andavano bene.
Vicino casa degli zii c’era un grosso parcheggio pieno di terremotati come noi. Restammo lì a dormire in auto solo quattro giorni, secondo mamma, ma io dico che doveva essere stato un mese. Avevo la sensazione che il tempo fosse stato lunghissimo.
La notte non riuscivo a prendere sonno. Ero piccolo e qualche volta svegliavo Gianni, ma scoprivo che anche lui come me non dormiva.
«Mi porti fuori che devo fare pipì?»
Lui apriva la portiera dell’auto e il freddo mi entrava nelle ossa nonostante il cappotto, poi scopriva che mi ero già fatto tutto addosso.
«Gianni, ma quando torniamo a casa?»
«Non lo so, Carlo. Non è sicuro ancora.»
Quattro giorni? Possibile che furono solo quattro giorni? Ricordo gli altri bambini dello spiazzo coi loro Super Santos arancioni, le roulotte, gli zii, le zie, i cugini, i miei risvegli notturni e le mie proteste. Volevo tornare a casa mia e vedere se era ancora lì oppure se al suo posto c’erano solo polvere e pietre come era accaduto per alcuni edifici lì intorno.
«Carlo la casa è lì, siamo stati fortunati. C’è chi non ce l’ha più» disse mamma.
Mio fratello mi strinse forte forte.
«Carletto mi spiace che non sono venuto a prenderti mentre disegnavi, ma non ho capito nulla.»
«Giannino ti voglio bene» gli ho detto ricambiando l’abbraccio. «Tanto.»
Abbiamo parlato tanto durante quei giorni di accampamento e abbiamo litigato molto meno del solito, forse per nulla, non ricordo.
– I dati del terremoto:
Data: ore 19.35 del 23 novembre 1980
Magnitudo: 6.5 – 6.8 Richter (9 – 10 Mercalli)
Durata della scossa principale: 90 secondi
Morti: 2.998 anime
Feriti: 8.245 anime
Senzatetto: 234.960 anime
Regioni colpite: 3 (Campania, Basilicata e Puglia)
Numero di Comuni colpiti: 687
di cui disastrati: 37
Superficie colpita: 15.400 Kmq
Popolazione coinvolta: oltre 5.000.000 di abitanti
Soccorritori: oltre 8.000 uomini
30 agosto 2010
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Bravo! Un quadro doloroso e ispirato, una rievocazione delicata tra i sentimenti e le luci di quella sera. Non è facile narrare di un vissuto del genere. Il 23 novembre avevo circa tredici anni, e quello spavento mi è rimasto dentro.
luigi
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🙂 Grazie per essere passato di qui e aver lasciato il tuo commento.
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Mi ricordo di quel giorno. Avevo 14 anni e nonostante vivessi al nord, dove abito tutt’ora, mi è ancora rimasto quel terrore e inquietudine nel vedere le immagini alla televisione di quella devastazione e morte. Nel tuo racconto traspare ancora quella disperazione che avevo percepito nei giorni successivi a quella catastrofe. D’altronde solo chi c’è passato e ha purtroppo sentito quella sensazione di impotenza può comprendere come puoi aver trascorso quei momenti e quei mesi/anni di tribolazione assieme alla tua famiglia. Ti ringrazio per la tua testimonianza così ben scritta!
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Prego 🙂 .
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