
Benché se ne possa pensare, la scrittura è un processo non naturale.
Quando si ascolta il ritornello di una canzone basta poco perché ti arrivi in testa e non se ne vada più. In un attimo ti ritrovi questa sequenza di parole e note che ti frullano in testa, le canti sotto voce. La musica è una cosa che è un processo naturale. Le note naturali sono appena 7, quindi è semplice combinarle insieme. Le parole, invece, sono centinaia di migliaia.
Quando ero a scuola e dovevo imparare a memoria una poesia, era una botta in fronte di quelle tremende. Il “5 maggio”, le poesie di Natale, di Pasqua. Mamma, che disastro!
Nonostante l’odio avverso alle poesie e alla narrativa, un bel giorno d’estate comprai Stagioni diverse e inizia a leggere e poi da lì a scrivere perché affascinato da questa raccolta di quattro novelle.
Un editore oggi prenderebbe quelle 4 storie e le pubblicherebbe in quattro libri diversi spacciandoli per 4 romanzi brevi.
Al di là di questa divagazione, bisogna capire alcune cose fondamentali. Quando ci troviamo di fronte a una raccolta di racconti, a un romanzo che sembra essere scritto in forma perfetta, dobbiamo capire che è una forma imprecisa di arte. È il frutto di una serie più o meno lunga di ritocchi e riscritture che a un certo punto sono stati interrotti.
Il primo oggetto, la prima versione di un testo di narrativa, per quanto sembri semplicemente perfetto, è feccia. Almeno lo è rispetto a quello che uscirà fuori dopo le tante revisioni, l’editing, la riscrittura e tutto il lavoro che c’è dietro lo quinte e di cui nessuno conosce. Lavoro perfetto? No, perché la forma di un testo a un certo punto deve essere congelata. Non si può risistemarla all’infinito.
Non è perfetta la prima forma perché la scrittura non è un processo naturale. In essa convogliano bagagli di esperienza e origini dell’autore. Origini? Per dirne una, ero convinto che “pigione”, ovvero il pagamento della mensilità per l’affitto di una casa fosse un termine maschile: “il pigione” e, invece, sul vocabolario della lingua italiana ho scoperto che è un sostantivo femminile: “la pigione”.
Perché ero convinto del contrario? Perché il dialetto è “o’ pigione”, ovvero “il pigione”. Il dialetto ne ha alterato il genere del sostantivo. Quando si scrive ci si porta dietro un bagaglio culturale che risente delle nostre origini e degli ambienti che frequentiamo, delle imperfezioni che fanno parte di noi, della nostra vita reale, di convinzioni errate sull’uso della parola parlata che diventa forma scritta. Attraverso tanta lettura si debellano alcune parti di queste, ma è dura, perché la parola scritta non è un processo naturale. Ci sono persone che non hanno mai scritto nessuna opera di narrativa in vita loro e che mai lo faranno, ci sono altri che scrivono l’impossibile, in modo sgrammaticato, superficiale e che rendono disponibile pubblicamente.
Per quanto si voglia dire, per quanto si voglia fare, scommetto che se uno si legge 10 volte il proprio testo prima di pubblicarlo ne effettuerà modifiche per tutte e dieci le riletture, a meno di non essere dei geni, persone fuori dal comune. Oppure se non ci si arrende molto prima col numero di riletture/revisioni.
Ci sono errori che sfuggono, refusi che mentre si legge non vengono visti perché il cervello corregge automaticamente facendoci leggere la frase nella forma giusta. Non so, troviamo scritto “le spogli dle uomo” e noi leggiamo ad alta voce “le spoglie dell’uomo” avendo corretto “spogli” in spoglie e “dle” in dell’. Magari la correzione del testo in seguito a una revisione avviene in due fasi, perché la prima cosa proprio sbagliata è quel “dle” che è un evidentissimo errore di battitura, e quindi viene sistemato. Anche “spogli” non è corretto, ma quest’ultima parola esiste nel dizionario, quindi potrebbe essere ignorata perché il cervello la “legge” in modo corretto, poi successivamente si capisce che si è corretto a metà e si riprova.
L’attenzione non è mai la stessa perché serve una gran concentrazione che si dedica alla trama, ai fatti narrati, distraendoci dalla forma. Non ci si mette volutamente a individuare gli errori quando si legge una storia, altrimenti si perde il gusto per la stessa, ma è anche vero che se è piena zeppa di orrori grammaticali, questi verranno alla luce e spingeranno via dalla concentrazione verso la trama alla concentrazione verso la forma.
Poi c’è un altro fatto, questo accade più spesso quando il lettore è anche uno scrittore, ovvero l’intolleranza più nera e assoluta per la forma. Per alcuni è una vera malattia, una forma di intolleranza verso l’altro anche quando la forma non ha quell’aspetto inconcepibile che hanno certi testi. Ci sono persone che capiscono il problema e ti aiutano, si mettono nei tuoi panni perché sanno che la scrittura è un processo innaturale e quando gli chiedi di aiutarti a individuare le cose che a te sfuggono, ci provano con umiltà e ti insegnano anche, senza fartelo persare.
Abbiate paura degli scrittori intolleranti e perfezionisti la cui unica forma d’arte pura è la loro. Sono intolleranti a sproposito, gli manca il concetto di rispetto del prossimo quando questo prossimo chiede il loro aiuto. E, in questi casi, è come dare un coltello affilato e appuntito nella mani di un folle assassino seriale.
Soprattutto mancano del concetto che “La scrittura è un processo NON naturale”.
Ma allora perché si continua a scrivere? Perché ci si ostina a leggere e rileggere un testo che per definizione sarà impuro, imperfetto e innaturalmente ordinato?
E poi vogliamo parlare di un testo che viene tradotto?
Se la scrittura non è un processo naturale, cosa accade nella trasposizione da una lingua a un’altra? Dove ci sono concetti, abitudini, lessico e dialetto che non corrispondono affatto?
La lingua italiana non è precisa quanto quella inglese britannica. In quest’ultima ogni verbo ha una definizione precisa e un uso specifico non generico, come invece avviene in italiano. Anche la traduzione da una lingua all’altra introduce un’alterazione di alcuni concetti, in particolare quando si usano certi tipi di frasi che si scrivono e traducono in maniera completamente diversa.
Ecco un esempio: “You’re welcome”. Letteralmente “Sei il benvenuto” che in italiano diventa “Non c’è di che”.
Ecco, la parola scritta non è di facile gestione perché, ripeto per la milionesima volta, non è un processo naturale e, infatti, molti hanno anche difficoltà a comprendere le parole scritte.
Anche se è vero che alcuni libri, tipo quelli di scuola, a volte sono scritti in un modo davvero incomprensibile. Volutamente complicati, forse per far capire che la cultura è per pochi? O ci sono altri motivi meno evidenti?
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Cos’è una newletter e come funziona? Lo spiego qui.
Sono d’accordo in parte.
Sul fatto che, per esempio, se rileggessi un pezzo scritto un mese fa, rifarei tremila cambiamenti (ma questo accade per ogni forma d’arte); sul fatto che ci sono i refusi anche.
Tuttavia, personalmente riconosco la potenza dell’ispirazione: nel momento preciso in cui mi arriva un’idea, spesso mi arriva anche perfettamente la forma e a me non resta che trascrivere.
La musica é più diretta, certamente, per l’ascoltatore. Chi l’ha scritta , ti assicuro, ha fatto esattamente quel che facciamo noi con la scrittura.
Ogni forma creativa necessita di una parte istintiva, naturale, e di una parte vagliata dalla disciplina che tu, impropriamente a mio avviso, chiami non naturale.
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