Facciamolo a skuola: storie di quasi bimbi, di Maria Lombardo Pijola

Voto: 3 stelle su 5.

Il problema di questo libro è che non è un romanzo vero e proprio, ma non è nemmeno una indagine sul tema. O, meglio, è tutte e due le cose e non lo è. Ecco il perché delle tre stelle. Se fosse stata una indagine e avesse trattato il tema in un saggio forse sarebbe anche riuscito a tirarsi dietro quattro stelle.

Come romanzo racconta dei fatti sconcertanti, ma lo fa con una certa distanza. Si preferisce riferire la storia con una voce narrante in prima persona che non crea empatia. Una prima persona di una ragazzina di 13 anni che ha problemi grossi, ma, leggendo tutto il libro, non è nemmeno l’unica bambina di quell’età ad avere quel tipo di problematiche.

Non c’è modo di addentrarsi in una psicologia vera e propria, anche perché manca, bisogna andarsene per un’idea. Alcuni sentimenti sono descritti attraverso il pianto dei genitori di lei, non dico che non avrebbero dovuto piangere. Io sarei morto al loro posto, altro che pianti. Ma perché non caratterizzarli più a fondo e dare il taglio da romanzo vero e proprio, visto che di un romanzo si sarebbe dovuto trattare? In realtà, vista la lunghezza, è un racconto lungo.

Ci sono i soliti genitori assenti, complessati quanto la ragazza, lei che non accetta il proprio corpo, il rapporto con gli altri, e quindi si dà a seguire il nulla. All’autrice manca la forte vena narrativa che deve caratterizzare un bravo autore in un romanzo e, infatti, rimaniamo così a veder scorrere le pagine senza capire davvero cosa stiamo leggendo. Si capisce perché la ragazzina si comporta in un certo modo, ma c’è bisogno d’altro. Forse se si fosse scelta una terza persona e non ci si fosse nemmeno concentrato su un solo personaggio, dico, forse, si riusciva a farne un discreto romanzo.

Siccome il tutto è tratto da una storia vera a cui l’autrice ha avuto accesso con documenti alla mano (viene detto esplicitamente all’inizio del testo), c’era il problema di non darsi troppo alla fantasia e quindi non si potevano introdurre personaggi e approfondirli, come i genitori, la psicologa nella propria vita privata, la scuola con docenti e quant’altro, perché ci sarebbero poi potuti essere altri tipi di problemi.

Sono questi i tanti motivi per cui “un romanzo non romanzo”/“racconto non racconto”/“una sorta di inchiesta raccontata in prima persona” non ha funzionato affatto per me. Anche se l’uso del linguaggio era perfettamente consono all’età del personaggio.

Non sono i fatti sconvolgenti che producono automaticamente una storia con forte empatia, non è che più i fatti sono drammatici e più il lettore deve sentirsi sconvolto. Non è detto che chi legge una storia così debba sentirsi per forza sconvolto, magari vorrebbe sentirsi solo più vicino alla famiglia devastata. È il modo in cui si raccontano gli eventi che stabilisce la bravura di un autore.

Più vicinanza ai personaggi, più caratterizzazione degli stessi e la storia ti colpisce.

I fatti sono stati denunciati più volte in trasmissioni televisive, quindi sono quelli, il lettore bene o male li consce anche senza dover leggere tutto il libro.

Avrei preferito magari il saggio, l’inchiesta giornalistica. Secondo me avrebbe funzionato molto di più, sarebbe stato più funzionale agli argomenti nel modo in cui sono stati trattati.

Il libro si legge in un paio di giorni.

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