I rischi del diventare editori di sé stessi

Ho letto questo articolo: http://www.linkiesta.it/rischi-del-self-publishing in cui si parla dei rischi del diventare editori di sé stessi.

L’ennesima rottura di scatole per un selfpublishing che dà fastidio… Certo, è chiaro che una buona parte di selfpublishing è immondizia come lo è buona parte dell’editoria tradizionale di cui l’autore dell’articolo ha in gran considerazione. Dice che gli scrittori non si rivolgono più agli editori… secondo lui. Forse dovrebbe leggere questo articolo: http://www.amlo.it/?p=4236.

In particolare, siccome per commentare bisogna registrarsi, ho evitato. Espongo qua concetti che, chi segue questo blog, già conosce, ma gli articoli ti fanno trarre spunto per aggiungere sempre nuove considerazioni.

L’autore dice di occuparsi da tempo degli esordienti, di essere consulente di case editrici e curatore di riviste letterarie, e come tutti segue con interesse il dibattito sull’evoluzione dell’editoria chiamata a confrontarsi con le nuove prospettive aperte dal digitale.

Si lamenta di alcune cose specifiche:

  1. («Scovo una raccolta di lettere che avevo scritto da Londra… Ecco un altro possibile ebook già pronto»): un approccio nei confronti del concetto di “pubblicazione” che fino a qualche tempo fa sarebbe stato impensabile.
  2. Concedetemi delle metafore arbitrarie: lo sportivo che rinuncia agli allenamenti per non dover sopportare i rimproveri del coach, il musicista che salta la gavetta per non subire l’umiliazione di suonare in un bar dove nessuno dei presenti gli presta attenzione, saranno poi in grado di affrontare l’arena con le solide basi che richiede?
  3. nessuno mi risponde, quindi mi pubblico da solo. A me sembra che in questo passaggio di democratizzazione assoluta (lo scavalcamento del rapporto con un editore consolidato, tutti che diventano editori di se stessi) sia la qualità del testo a farne le spese: non esistono più standard minimi, esiste solo il desiderio di essere sul mercato.

Perché mai il punto uno fa scalpore? Qualcuno gli spiega che alcuni editori tradizionali fanno anche di peggio?

Ma lo sa o non lo sa che nessun editore risponde? O il testo piace e ti propongono un contratto di pubblicazione o non ti dicono nulla, nemmeno quelle piccole case editrici che sul loro sito espongono il marchio di qualità (falso) in cui dichiarano che rispondono a tutti perché è maleducazione non farlo. L’autore parla di forum letterari e piccole case editrici. Io ho avuto una certa esperienza in merito e non ci tengo a ricadere in certi errori. Alcune piccole case editrici che conoscevo si sono trasformate in case editrici a pagamento, altre sono sparite e altre ancora truffano regolarmente gli autori. È chiaro che qualcuno di buono in questo vasto oceano c’è. E l’ho anche incontrato, ma il numero è così esiguo che se vogliamo parlare per grandi numeri non rientriamo in nessuna media. E poi non c’è una “media”.

Il punto 3 si commenta da solo. Basterebbe chiedere a questo autore e consulente editoriale se conosce libri come “50 sfumature di grigio”, “Riflessi di te”, ecc… ecc… basterebbe anche un “Dentro di me”, “Vienimi dentro” per vendere e scordarsi il concetto di qualità, tanto blasonato, ma che non può essere applicato in modo scientifico. Chi può assegnare un merito di qualità assoluta quando un sondaggio molto rilevante (mi sfugge il link) afferma che molti lettori non capiscono nemmeno bene ciò che leggono? Se qualcuno me lo spiega, magari capisco.

Quindi smettiamola di parlare di qualità. Sì, c’è chi si autopubblica che veramente meriterebbe i calci in culo: copertine da brivido, testo formattato coi piedi “<<” e “>>” al posto dei “«” e “»”, niente rientri a inizio rigo, refusi come fosse pioggia d’inverno. La qualità pessima in assoluto si riconosce. Ma conosco anche editori che le copertine non le mettono oppure sono copertine orrende, alcuni editori non fanno correzione di bozze e si nota tantissimo, altri nemmeno l’editing, altri non fanno nulla e non pagano nemmeno i diritti d’autore ai loro autori, alcuni lo mettono per iscritto per contratto: 0% sulla pubblicazione. Altri dicono che hai venduto 100 copie e in realtà ne sono 200.

Vogliamo ancora parlare? Vogliamo ancora farlo in maniera generica usando parole come “editore” per indicare i tremila e passa editori d’Italia come se fosse un unico e solo editore?

Vogliamo anche lasciar passare il concetto che con il termine selfpublisher ricopriamo i casi di tutti i selfpublisher d’Italia? Per favore, non mischiamo la lana con la seta, diceva mia nonna.

Se è vero che chi si autopubblica spesso non ha una maturità letteraria tale da poter andare molto lontano è anche vero che c’è chi scrive meglio di autori pubblicati regolarmente e ha una cura del testo e dell’ebook che nemmeno un grande editore ha… Non ci credete? Ebbene, spesso i grandi editori non validano gli ebook, non sanno fare l’indice per l’ePub, ecc ecc, per non parlare di alcuni piccoli editori che vendono 30 paginette di ebook a 3 euro con grossi problemi nella realizzazione dell’ePub. Per non parlare delle storie insulse del testo di per sé.

Quindi alla fine dei giochi chi si pubblica da solo e lo fa bene, ottiene le sue soddisfazioni (anche con solo 10 lettori perché non ha l’ufficio marketing del grande editore alle spalle) e chi lo fa con un editore deve accontentarsi, in alcuni casi, della mediocrità. Non esiste un discorso valido sempre e in assoluto.

L’autore deve fare riferimenti ai pessimi ebook che legge. Di piccoli, di grandi editori e di selfpublisher. Vogliamo la par condicio? Ebbene che si sappia chi lavora male e chi lavora bene.

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2 pensieri su “I rischi del diventare editori di sé stessi

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